La Repubblica - 22 marzo 2019
Federico Rampini

Signorsì, presidente Xi Jinping: benvenuto in Italia, con gli onori dovuti al leader della seconda superpotenza mondiale, erede di una tradizione plurimillenaria. Ma che cosa spera di ottenere l'Italia da questa visita, esattamente? Nell'immediato il governo Conte si è attirato le attenzioni non proprio benevole dell'Amministrazione Trump e dei maggiori partner europei. Hanno ragione o torto? E ne valeva la pena?
Non scambiamo le apparenze e la sostanza. Nel Memorandum of Understanding tra la Repubblica popolare e il nostro Paese non ci sono accordi concreti, è un'affermazione di grandi principi, con la retorica tipica di questi documenti. Gli accordi commerciali e gli investimenti si farebbero comunque, a prescindere. L'Italia non sta lasciando né l'Ue né la Nato per diventare una colonia cinese, naturalmente. Quel testo ha un valore simbolico. Ma i simboli in politica estera contano. A maggior ragione quando a maneggiarli c'è una diplomazia raffinata che si rifà a tradizioni millenarie, come quella cinese che ormai si richiama apertamente alla continuità con l'Impero Celeste. Dunque Xi incassa un successo simbolico evidente: l'Italia è il primo Paese del G7, il primo tra i fondatori dell'Ue, che aderisce ufficialmente al piano Belt & Road, nome ufficiale delle Nuove Vie della Seta. Bisogna ricordare che un tassello di questo grandioso progetto cinese fu quella Banca Asiatica d'Investimenti contro la quale si battè già Barack Obama: perché ci vedeva la prima sfida aperta all'ordine internazionale costruito dall'America a partire dal 1944, imperniato su istituzioni multilaterali come Fmi, Banca mondiale, Gatt (poi Wto).
La Cina di Xi presenta tutto ciò che fa come un win-win, un gioco a somma positiva dove ciascuno ricava dei vantaggi. Per esempio, nelle grandi opere infrastrutturali si rafforzano legami biunivoci, loro possono usare le nuove reti ferroviarie e portuali, stradali e aeree, per esportare ancor più facilmente; lo stesso possiamo fare noi usandole in senso inverso, per conquistare nuovi sbocchi sul mercato cinese. Xi si presenta come il globalista del nostro tempo, con una visione positiva dei commerci mondiali, mentre l'America si ripiega nell'isolazionismo sovranista.
Ma è davvero così? Win-win, il gioco a somma positiva, è una bella teoria per i manuali di economia. Esige una reciprocità che non esiste. Il mercato cinese ha una tradizione protezionista molto più antica di quella trumpiana. Discrimina sistematicamente a favore dei propri campioni nazionali. Questo è tanto più vero nei cantieri titanici delle infrastrutture che la Cina apre in tutto mondo, dove spesso regna l'opacità; non vengono trattate alla pari le aziende degli altri Paesi; per non parlare dei problemi di sostenibilità ambientale, o dei diritti dei lavoratori. Ecco il primo test a cui il governo Conte avrebbe dovuto sottoporre Xi, e il suo Memorandum: quali impegni concreti e verificabili assume Pechino per trattare in modo equo e con reciprocità le aziende italiane? Prima ancora delle sacrosante protezioni dei nostri settori strategici - col Golden Power - cos'andiamo a ottenere noi su un mercato cinese che rimane ampiamente dominato dall'arbitrio del suo governo?
La vigilanza nei confronti di Xi non significa assolvere le ipocrisie dei nostri partner. Trump ha maltrattato gli europei colpendoli coi dazi, non ha fatto distinzioni tra alleati e rivali, di fatto ci ha reso tutti più vulnerabili all'espansionismo cinese. Germania, Inghilterra e Francia, per non parlare di scandinavi portoghesi e balcanici, hanno accolto ben più investimenti cinesi di noi; talvolta hanno venduto a Pechino pezzi pregiati dell'argenteria di famiglia. Il rischio di un semi-monopolio cinese nella telefonia mobile di quinta generazione (Huawei) è stato trascurato a Berlino e a Londra. Ora alcuni salgono in cattedra e lanciano all'Italia dei moniti tardivi.
L'Ue dovrebbe finalmente definire una politica comune verso la Cina proprio ora, ma rimane distratta dalla Brexit. In confronto al caos dell'Occidente, Xi ha le idee molto chiare. Anche troppo. È il primo presidente dai tempi di Mao che teorizza apertamente la superiorità del suo modello autoritario rispetto alle nostre liberaldemocrazie. È anche questa visione del mondo, che transita lungo le arterie delle Nuove Vie della Seta.