Il Caso Moro
Aldo Moro fu rapito in via Fani a Roma giovedì 16 marzo 1978 e fatto ritrovare morto in via Caetani martedì 9 maggio. Ezio Mauro su Repubblica, in questi giorni, 40 anni dopo i fatti e alla luce di quanto emerso almeno finora, ricostruisce quegli eventi pubblicando 5 puntate.
La Vostra Voce vi ripropone la 4^ e la 5^ Puntata e nei prossimi giorni un commento di RdA ed un suggerimento di lettura.
Moro nel Carcere del Popolo
29 MARZO 2018
Il presidente della Democrazia cristiana passa la prima notte in cella. I brigatisti, reduci dalla strage di Via Fani siedono in cucina. Uno di loro batte a macchina parole come "gerarca", "imperialista", "processo". È il comunicato numero uno. Che si abbatte su un Paese in cui qualcuno incomincia a dire "né con lo Stato né con le Br"
DI EZIO MAURO
"E' stato un macello. Noi stiamo tutti bene, ma è stato un macello". Valerio Morucci è appena rientrato nell'"ufficio" di via Chiabrera, dall'agguato di via Fani, dopo aver lasciato l'ostaggio sull'auto guidata da Moretti verso la "base", perché nessun brigatista oltre ai quattro carcerieri deve conoscere il luogo della prigione. La televisione mostra la scena fissa del massacro, l'"Alfetta" della scorta piena di colpi, gli agenti riversi all'interno, la "132" con le portiere spalancate, i due carabinieri morti e il parabrezza attraversato da un proiettile, i giornali sparsi a coprire il corpo di Raffaele Iozzino, a terra nel sangue. Non c'è l'audio, perché Adriana Faranda ascolta le radio della polizia e dei carabinier, dove crepitano i messaggi delle pattuglie, gli aggiornamenti delle volanti, l'orrore della giornata trasformato in ordini e in messaggi. "Volevo farmi raccontare tutto - dice oggi Faranda -, non riuscii a chiedere niente. Lui tornò sconvolto, ripeteva soltanto quella parola: un macello".
Sconvolto da una strage preordinata, organizzata, cui ha appena partecipato, e che sta sconvolgendo l'Italia. Andreotti riunisce subito nel suo ufficio a palazzo Chigi i segretari dei partiti che sostengono il suo governo, Zaccagnini, Berlinguer, Craxi, Romita, Biasini, una specie di gabinetto d'emergenza, anche se tutti sono d'accordo a evitare leggi speciali. Si guarda soprattutto all'azione di polizia, il quartiere Trionfale, la Balduina, Belsito vengono setacciati strada per strada, si ispezionano i garage e i magazzini al piano terra, bersaglieri e granatieri affiancano gli agenti, arriva un primo contingente di mille uomini.
Ma i brigatisti si sono dissolti. Dopo i tre minuti del massacro, hanno lasciato la scena della morte, hanno spostato due volte l'ostaggio da un'auto a un furgone a un'altra auto, e adesso si sono separati disperdendosi nella città sulle macchine rubate che li aspettavano in zona, con le targhe e i documenti contraffatti. Chi è venuto da fuori città, per dar man forte alla colonna romana, è già ripartito, Bonisoli è appena salito sul treno che lo riporterà a Milano, da dove si muoverà solo per le riunioni dell'esecutivo Br, in una casa alle porte di Firenze, ogni volta che c'è da prendere una decisione strategica nei 55 giorni. Dall'altra parte della città, Aldo Moro sente chiudersi la porta di legno della cella sulla sua prima notte da prigioniero.
E' solo, sdraiato sulla brandina, con il braccio destro sulla fronte, come lo vede Anna Laura Braghetti dallo spioncino: il prigioniero non incontrerà mai la padrona della casa che nasconde il covo, lei lo osserverà ogni sera quando torna dall'ufficio all'Eur, esce dalla sua identità convenzionale di impiegata, entra nella sua seconda vita di terrorista "irregolare". Stasera lo guarda a lungo, prima immobile, poi voltato di fianco, quindi di nuovo con la mano sulla testa, come a sorreggere i pensieri. Ha visto una scena terrificante. Le raffiche del mitra, la pioggia di colpi, il sangue dovunque quando ha aperto gli occhi rialzando il capo, l'auto che sbatte davanti e dietro e non riesce a scappare, l'autista freddato davanti a lui e il maresciallo Leonardi, con cui si è sempre sentito sicuro, fulminato proprio mentre si volta all'indietro per proteggerlo, urlando qualcosa. Poi quella mano che entra nell'auto, lo afferra per il braccio, lo tira giù, un'altra mano gli china la testa, lo spingono a forza dentro un'automobile.
Folla e commozione ai funerali degli uomini della scorta

Ha capito subito, più che capire è entrato di colpo dentro quello scenario che temeva da tempo, ma allontanava nel pensiero. La visita del Capo della Polizia Parlato nel suo studio, il pomeriggio prima dell'agguato, la moglie che insisteva per l'auto blindata, tutti quegli avversari sparsi che potevano diventare nemici, ma soprattutto il terrorismo brigatista che alzava il tiro ogni giorno e lui, certo, era tra i bersagli naturali quello più simbolico.
Tutte queste ombre prendono corpo nella luce notturna della prigione, insieme con l'angoscia per la famiglia. Poi si fa strada il bisogno di capire, decifrare, almeno intuire: per poter studiare una strategia, impostare un calcolo, inventare una teoria che guidi l'azione prigioniera. Come ha sempre fatto, anche se adesso scopre che la vita non è come la politica. L'unica cosa libera è la mente, che incomincia a organizzare le nozioni frammentarie di una giornata in cui è esploso l'ordine disciplinato della sua esistenza. Ciò che ha visto, ciò che ha subito, quel che ha percepito. Quel che si può solo ipotizzare.
Quanti sono? Due lo hanno preso, un terzo guidava. Altri hanno sparato, non ha visto, tutto è avvenuto troppo in fretta, una furia di fuoco. Il viaggio al buio gli è sembrato lungo, forse più di mezz'ora, magari lo hanno portato fuori Roma. La cassa che lo rinchiudeva dev'essere stata trasportata da almeno due persone. Hanno salito le scale in silenzio: una rampa, un pianerottolo, un'altra rampa. Gli hanno fatto cambiare i vestiti, dunque la prigionia sarà lunga. L'uomo che gli parla non ha accento, è deciso, sembra un capo. Se ha il cappuccio è perché ha paura di essere riconosciuto, dopo: dunque pensano che ci sia un dopo, oltre la prigionia. Poi c'è un altro carceriere che viene col vassoio per la cena senza parlare, e sotto il piatto c'è una tovaglietta di rafia, come se in casa ci fosse una donna, magari quella che stasera ha preparato il minestrone. Adesso non si sentono rumori, la casa è silenziosa. Cosa staranno facendo, oltre quella porta, cosa lo aspetta domani?
Zaccagnini e Andreotti durante i giorni del sequestro

I brigatisti sono seduti in cucina, hanno finito l'analisi militare dell'azione, quei mitra inceppati, il poliziotto che è uscito sparando, Bonisoli che è riuscito subito a colpirlo, Moretti che ha tardato a scendere dalla "128" familiare perché doveva bloccare con la sua auto la "130" mentre cercava una via di fuga, l'azione che secondo i calcoli doveva durare un minuto di meno, quell'uomo che aspettava l'autobus alla fermata di via Fani ma è scappato subito, qualcuno che si è affacciato al balcone ma è stato ricacciato in casa da una sventagliata di mitra.
Poi, di fronte all'enormità dell'operazione, i carcerieri scoprono la fragilità della loro "base", quasi la città la cingesse d'assedio. Hanno Moro in cella, ma è come se la città imprigionasse la prigione, tutt'attorno. Tutti li cercano, sono protetti soltanto dalla finzione della normalità in cui si camuffano, dalla banalità quotidiana di un condominio, dalla regolarità indifferente della periferia, dall'anonimato di un appartamento al primo piano, dall'odore ordinario di minestra all'ora di cena. E' la prima notte, Moro è in casa loro. Si guardano attorno, vedono la vulnerabilità di tre finestroni, di due ingressi, di una difesa minima in caso di attacco della polizia, con un gruppo di fuoco composto da tre persone (se Moretti è in casa), più la Braghetti che tiene la pistola sul comodino, ma non ha mai sparato un colpo, si esercita ogni tanto premendo il grilletto a vuoto, per provare.
Lettura dei quotidiani a margine dei funerali degli uomini della scorta di Aldo Moro

Decidono di fare i turni di guardia la notte, partendo da stanotte. Moretti e Braghetti dormiranno nella camera da letto, Maccari sul divano in salotto, Gallinari si è già seduto nello studio per il primo turno con il mitra in mano, davanti alla parete che nasconde la cella. Domani, Moretti passerà dal prigioniero poi andrà all'"ufficio" con una busta arancione in tasca, per consegnarla a Valerio Morucci e Adriana Faranda con le istruzioni per l'uso. Dentro, ha infilato la Polaroid di Moro in mano alle Br, ritagliata di 2,4 centimetri in larghezza e 1,3 in altezza, per cancellare il codice di identificazione stampigliato di fianco. Ma insieme con la foto, nella busta c'è il "comunicato numero 1" delle Br, con quel marchio nel cerchio, la stella a cinque punte.
Lo ha scritto Moretti nel pomeriggio, con addosso ancora il sudore freddo dell'agguato, del sequestro, della fuga, come se il volantino facesse parte dell'azione, la completasse spiegandola, perché senza la cornice ideologica resta imperfetta. Quando il prigioniero è rimasto solo nella cella, lui si è seduto al tavolo di formica marrone della cucina, e ha firmato la rivendicazione, per renderla pubblica insieme con la prova fotografica del sequestro brigatista. In una cucina-tinello di via Montalcini, tra i pensili con le pentole e il lavandino, dietro le tende chiuse, prende così corpo il disegno terroristico preparato nei covi da mesi, la teoria dell'azione. Il testo è stato concordato nell'ultima riunione dell'Esecutivo, Moretti può scriverlo personalmente a nome dell'organizzazione, senza bisogno di nuove verifiche, ha carta bianca.
Giovanni Moro con sua madre Eleonora ai funerali degli uomini della scorta

In quel primo documento, dopo la rivendicazione della strage della scorta, "completamente annientata", c'è già l'annuncio pubblico del "processo" a cui Moro verrà sottoposto e c'è la traccia del percorso tragico che porterà all'uccisione dell'ostaggio. Moro, dice infatti la prima riga, è in un "carcere del popolo". Dunque la legittimità è subito e definitivamente rovesciata. E' stato catturato perché "è il gerarca più autorevole, il teorico e lo stratega di quel regime democristiano che da trent'anni opprime il popolo italiano, ed è l'esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste".
L'accusa ideologica è senza rimedio e contiene in sé la condanna: i vecchi Stati liberali si stanno trasformando in Stati imperialisti delle multinazionali, cinghia di trasmissione degli interessi del grande capitale mondiale. In Italia la Dc "è la forza centrale della gestione imperialistica dello Stato, è il polo politico della controrivoluzione". Bisogna dunque "estendere il processo al regime stanando dai covi democristiani gli agenti controrivoluzionari", bisogna "braccarli ovunque, non concedere loro tregua".
In questa gabbia ideologica, dove il potere è un blocco unico, e si muove per cerchi concentrici concatenati, Moro è non solo recluso ma condannato fin dal primo giorno, anzi è stato preso per essere condannato, perché l'atto d'accusa è talmente totale e definitivo da coincidere con la sentenza. Il prigioniero è stato sequestrato perché impersona l'ultimo anello perfetto di una catena che parte dalle manovre del capitale multinazionale, s'incentra sul Sim, lo Stato Imperialista delle multinazionali, ristruttura il sistema italiano di potere attraverso la dc, che ha come demiurgo di questa operazione proprio Moro.
L’insegna di via Gradoli, la strada in cui c’era il covo di Mario Moretti durante il sequestro

Su Moro si scarica dunque a contrario l'intera costruzione di questa piramide ideologica, secondo le Br è lui che porta integrale il peso degli errori della dc e, risalendo alla rovescia, la colpa dei misfatti dei governi italiani, la responsabilità delle manovre del Sim, la macchia dei piani della controrivoluzione imperialista mondiale. Nei pochi metri quadrati di una cucina del quartiere Portuense, precipita così un capo d'imputazione universale. Il groviglio di simboli sovrasta il leader, annienta il politico, cancella l'uomo, che prova a dormire qualche ora nella sua cella. Mentre un sedicente "Tribunale del popolo" annuncia il "processo", oltre quella parete, l'imputato non ha scampo.
La fotografia di Moro e la rivendicazione dell'agguato trovano un Paese sbandato, che brancola nel buio. Una commessa di Cardia, il negozio di via Firenze, riconosce in Adriana Faranda la donna che ha comprato le divise da aviere di via Fani. Circolano identikit, la televisione trasmette un elenco di sospetti terroristi, il ministro dell'Interno Cossiga insedia due comitati di crisi che risulteranno pieni di nomi iscritti nelle liste della loggia massonica P2 di Licio Gelli. Il pci parla di "complotto internazionale", le bandiere rosse e bianche si affiancano nelle piazze per le manifestazioni anche se negli ambienti intellettuali di sinistra si fa strada lo slogan "né con lo Stato, né con le Br". "Scambiereste Moro con Curcio"?, chiede Giampaolo Pansa ai deputati che affollano il Parlamento, sempre più cuore ferito di uno Stato sotto attacco: anticipando con quella domanda il dilemma dei 55 giorni.
A Milano due studenti di 19 anni, Fausto e Iaio, vengono uccisi vicino al circolo Leoncavallo, una sigla di estrema destra rivendica l'omicidio, che rimarrà senza colpevoli, a Roma lo Stato si raduna nella basilica di San Lorenzo per i funerali dei cinque uomini della scorta di Moro. "Hanno servito la patria", dice l'Ordinario Militare durante la messa. Ma si sentono le urla della madre di Zizzi: "Franco, amore mio, dimmi qualche cosa", il pianto di Cinzia, la figlia di Leonardi che si divincola dai carabinieri per singhiozzare sulla bara, il lamento della madre di Iozzino che non vuole tornare nei banchi: "Lui sta lì, perché io non posso stare qui"? Continuano le perquisizioni, c'è l'ordine di aprire sfondando le case sospette, ma quando una pattuglia arriva in via Gradoli 96, davanti al covo dove abitano Mario Moretti e Barbara Balzerani, si ferma davanti alla porta chiusa dell'interno 11, dietro la quale nessuno risponde.
E' una domenica delle Palme cupa, il 19 quando Paolo VI, amico personale di Moro dagli anni dell'Azione Cattolica, prega alla finestra di piazza San Pietro "per l'onorevole Moro, a noi caro, sequestrato in un vile agguato, perché sia restituito a noi al più presto". Scattano le nuove norme antiterrorismo, che portano a 30 anni la pena per i sequestri di persona e prevedono l'ergastolo se l'ostaggio muore. Ma a Torino vengono trovati otto volantini firmati Brigate Rosse alla verniciatura e alla carrozzeria di Mirafiori, a Genova la sezione "Gramsci" del pci non rinnova la tessera a sei iscritti, dopo che il collettivo operaio portuale ha firmato un volantino che dice "né Stato né Br"
Papa Paolo VI affacciato al balcone della Santa Sede

A Roma Morucci e Faranda sono già arrivati in una copisteria vicina a piazzale Belle Arti per fotocopiare il comunicato numero 1, lo porteranno in largo Argentina per lasciarlo nel sottopassaggio, insieme con la foto del prigioniero che rimbalza nelle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, mentre i periti della Procura escludono che sia un fotomontaggio e stabiliscono che l'ostaggio era a una distanza di un metro e quaranta dall'obiettivo. L'analisi del volantino rivela che è stato scritto con una macchina elettrica da un tastierista abile, forse straniero come suggeriscono le spaziature, di buon livello culturale, approssimativo quando parla del governo, perché scrive che appoggiano Andreotti tutti i partiti dell'arco costituzionale, mentre in realtà sono solo cinque.
La folla si è portata la radiolina sul traguardo della Milano-Sanremo, per restare collegata con l'emergenza, vince Roger De Vlaeminck che copre i 282 chilometri in 6 ore, 47 minuti e 34 secondi, ma un cartello sul Capo Mele diceva: "Io prego". E' tornato a correre sulla pista di San Siro Sirlad, il cavallo più forte del mondo che da nove mesi soffriva di solitudine, la Fiat annuncia che si chiamerà "Ritmo" la nuova "138" battezzata al 57° Salone di Torino, le azioni Montedison si svalutano da 500 a 175 lire, Paolo Rossi resterà un altro anno a Vicenza grazie all'azionariato popolare dei tifosi, sei preti a Matera si dimettono dalla Chiesa "per radicarsi nelle lotte operaie".
Renato Curcio in una delle gabbie riservate agli imputati durante il processo di Torino

Ma la vera notizia in un Paese stordito è che i terroristi hanno bucato la rete dei diecimila uomini che presidiano Roma, tornando con una delle auto usate nella fuga da via Fani - una "128" blu - vicino alla strada dell'agguato, in via Licinio Calvo, proprio dove due giorni fa avevano abbandonato la "128" bianca usata nell'azione del sequestro. Sembrano muoversi come vogliono, attenti ai luoghi emblematici, agli obiettivi simbolici, a usare la sorpresa come una beffa, la beffa come una forza. Quei volantini uguali che compaiono in quattro città. Quel santuario di via Fani dove tutta Roma porta i suoi fiori. Quel processo che i capi storici rifiutano a Torino. "E' nelle nostre mani - urla stamattina alla quinta udienza Renato Curcio, aggrappandosi alle sbarre nell'aula bunker -: Il vero processo si sta facendo altrove, e sarà molto serio".
In quell'"altrove" di 100 metri quadrati stasera Prospero Gallinari sta lavando la prima camicia del prigioniero: se ne occupa lui, sempre, nella casa non c'è la lavatrice, tutto viene portato in una lavanderia automatica, salvo i vestiti dell'ostaggio, lavati a mano e stesi per sicurezza nel bagno di servizio. Se si passa oggi in via Montalcini, quarant'anni dopo, sembra di vedere dalla finestra la stessa luce prigioniera delle notti del sequestro. In salotto Moretti prova il registratore: domani comincia l'interrogatorio, si apre il processo.
Processo al prigioniero Aldo Moro
5 APRILE 2018
Nella cella dove la luce non si spegne mai, il leader della Dc diventa un imputato senza difesa. Le Br lo interrogano perché sveli i segreti italiani e dell’“imperialismo internazionale”. È questo, nella mente dei terroristi, il vero nucleo dell’operazione. Ma alle loro domande ideologiche ricevono risposte politiche che non sono in grado di comprendere
DI EZIO MAURO
Gli hanno tolto la benda, ma è ancora come se fosse al buio. Nella cella la luce non si spegne mai, giorno e notte, e da stasera i carcerieri lasciano socchiusa anche la porta, quando la casa dorme. Si sono accorti che non possono tenere l'impianto di aerazione acceso la notte, fa troppo rumore, ma senza l'aria che arriva dal tubo la prigione non può restare chiusa. Gallinari è il responsabile della "base", tocca a lui risolvere il problema. Si infila il cappuccio nero, entra in cella. Moro lo conosce come il secondo uomo, non il capo, l'altro, quello che porta il tavolino con le gambe per il cibo, torna a riprenderlo, arriva con la bacinella di plastica piena a metà d'acqua tiepida, gli asciugamani, il sapone e il rasoio, svuota il water portatile, cambia la biancheria. Adesso parla al prigioniero, mentre gli sta in piedi davanti: "Se lei mi garantisce il silenzio, io le lascio la porta aperta".Seduto sul letto, lui cerca di capire: non fa altro tutto il giorno. Quella fessura dischiusa non lascia passare nulla, se non un po' di chiarore di giorno, il rumore di passi quando si avvicinano. Parlano sottovoce, nelle altre stanze? Montano la guardia armata, lì fuori? Vanno e vengono, o sono chiusi nella casa insieme con lui? E i vicini, non si insospettiscono di nulla? Il prigioniero immagina l'appartamento intorno a lui dai pochi rumori, il campanello che non suona mai, un bisbiglio lontano che sembra di televisione, l'odore di cucina la sera. Non può vedere, tenta di decifrare.
Ma è sul mondo di fuori che pesa l'oscurità totale. Moro è abituato ad analizzare i fenomeni, a studiare il sociale, a indagare il politico. Ha inventato una formula che racchiude il suo metodo: "l'intelligenza degli avvenimenti", e cioè la conoscenza che nasce dalle cose, l'interpretazione della realtà, indispensabile per agire. Osservare, con pazienza democristiana, conoscere, con perseveranza cristiana, quindi capire e poi governare. Adesso tutta questa attrezzatura gli manca, è rimasta fuori dalla cella. Non sa nulla di ciò che accade nel Paese dopo il suo rapimento, l'ultimo pezzo d'Italia che ha visto è la curva in salita per imboccare via Stresa a gran velocità, dopo la strage.
Chiede subito i giornali, abituato com'è a trovare tutta la mazzetta sul sedile posteriore della sua "130", procurata dalla scorta di prima mattina. Gli dicono di no. Vogliono che il sequestrato sia interamente alla loro mercé, svuotato di ogni cognizione autonoma del mondo esterno, privato di qualsiasi contatto, anche indiretto, ad esclusione di quello con i suoi carcerieri, concentrato soltanto sulla sua detenzione e sulla sua sorte, pronto per il prossimo passo. Quello che trasforma il prigioniero in imputato.
Un manifesto durante la mobilitazione popolare contro le Br e il terrorismo

È il processo, il vero nucleo centrale dell'"operazione Fritz", che nella mente brigatista giustifica e spiega il sequestro e l'eccidio, ridotti altrimenti a gesti clamorosi ma simbolici, che si esauriscono mentre si compiono. No. Per i terroristi il processo è portatore di senso per l'intera operazione, le dà una dinamica politica, un percorso, e le attribuisce un significato. Attraverso il processo saranno le Br a svelare i segreti del sistema imperialista internazionale, la catena di comando del capitalismo fatto Stato, l'intreccio di interessi e di legami tra i poteri mondiali controrivoluzionari, il ruolo dell'Italia, le responsabilità della Dc.
Nelle attese dei sequestratori il processo diventa l'appuntamento metafisico della rivoluzione con la storia italiana, il disvelamento dei suoi misteri, la messa a nudo delle sue storture. Uno strumento politico di propaganda formidabile, che impatta e rovescia in una tragedia mimetica il processo di Torino a Curcio e ai capi storici, tenendo anche quello in ostaggio da una cella larga novanta centimetri.
Si sono preparati con cura. Nelle carceri i detenuti politici per mesi si erano passati di mano in mano Strategia del processo politico, il libro di Jacques Vergès che da Socrate a Dimitrov, al Fronte di Liberazione Nazionale algerino racconta come gli imputati politici hanno "rotto" il processo trasformandolo in una tribuna, contestando l'autorità dello Stato, spettacolarizzando lo scontro. Una teoria messa in pratica a ogni udienza nell'aula bunker. Qui, nella cella di Moro, tutto è diverso. Ma la tesi di Vergès sul processo pedagogico, strumento di propaganda, è arrivata fino a via Montalcini, interno 8.
"Chiedetegli dello scandalo Montesi", dicono gli operai delle fabbriche occupate di Milano, nel reportage di Giorgio Bocca. In realtà l'elenco delle domande che i brigatisti si sono preparati e che Gallinari ha scritto è lungo. Gli undici morti di Portella della Ginestra, la "legge truffa" di De Gasperi, il governo di destra di Tambroni, l'affare Sifar e il golpe De Lorenzo, piazza Fontana, poi i legami con la Cia, gli ordini del Fondo Monetario Internazionale, lo spettro della Trilateral. Gallinari è andato personalmente per giorni nelle librerie di Roma a cercare testi sulla Dc, analisi e studi che potessero spiegare il modo di ragionare e di procedere di quel partito, lo studio è complicato, altri libri li ha dovuti trovare Anna Laura Braghetti negli ultimi giorni, con Moro già in prigione.
Tutto è pronto in questo abuso di processo dove non c'è difesa, dove l'accusa coincide con la giuria, dove il giudice è il carceriere, dove si discute di politica ma la posta in gioco è la vita. Dove, soprattutto, il suprematismo ideologico delle Br sfiora l'onnipotenza. Se Moro è ciò che loro dicono, perno e terminale italiano del comando imperialista mondiale, processandolo possono scoperchiare l'intero meccanismo del potere occidentale. Sono davanti al loro miraggio, hanno nelle loro mani il testimone del mondo che vogliono abbattere, con le chiavi di funzionamento di quella dimensione fino a ieri inarrivabile.
Ecco perché il processo è un atto quasi rituale, in cui i due estremi si toccano, e lo sfidante deve scardinare attraverso le sue domande l'universo chiuso del detentore del potere. Sarà una sola persona a interrogare Moro, il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, portatore diretto della "linea" decisa dall'Esecutivo. Sempre lui, con il cappuccio di cotone sul volto, per non essere riconosciuto ma anche per rappresentare in forma impersonale l'Organizzazione, che nel processo celebra l'incontro tra la sua teoria e l'azione. Dall'altra parte un uomo inerme chiamato a rendere conto di un intero sistema, abituato a maneggiare le formule della politica, ma questa volta costretto a farlo per giocarsi la sopravvivenza. Chissà se nella cella gli sono venute in mente le sue stesse parole pronunciate un anno prima nell'aula di Montecitorio, per difendere la Dc dalle accuse per lo scandalo Lockheed: "Non ci faremo processare nelle piazze".
Adesso Moretti gli dà del "tu", organizza sedute molto lunghe, spiega che lui fa le domande ma l'imputato deve rispondere alle Brigate Rosse, titolari dell'accusa e del giudizio finale: come se quel soggetto collettivo fosse presente nella cella, incappucciato. L'impianto ideologico è costruito nel dettaglio per arrivare al suo esito, la condanna, perché come dice Prospero Gallinari quel processo è senza appello, sigillato com'è da un'accusa capitale. Ma dietro lo stereotipo brigatista c'è la vicenda reale del Paese, piena di contraddizioni e di ombre, tuttavia spiegabile anche nelle sue miserie e nei suoi tradimenti con una lettura storica. E davanti a Moretti c'è Moro, che conosce nel profondo quella storia. L'interrogatorio dà al prigioniero l'ultima libertà, con l'unica arma possibile nel carcere, la parola. Che prende subito corpo riempiendo i vuoti dello schema Br, proponendo collegamenti, recuperando antecedenti, aggiungendo circostanze, disegnando un mondo: e con ciò spostando il quadro generale delle questioni, inclinandole fino a trovare un significato riposto, diverso da quello che i brigatisti ipotizzavano con le loro domande.
La lingua democristiana, complessa, articolata, elusiva, conciliante ma insistente avvolge il ferreo linguaggio brigatista, lo arrugginisce. Avuta la parola dai suoi carcerieri, Moro la usa esattamente in questo senso: rispondendo ogni volta a un titolo ideologico con uno svolgimento politico. Pazientemente il prigioniero svela il quadro complicato che sta dietro una domanda elementare, pedantemente riporta i brigatisti al largo. La sua politica è mare aperto, onde e correnti, vento e profondità, mentre loro cercano il messaggio segreto nascosto in qualche bottiglia democristiana. Nello spazio ristretto della stessa cella, dove Moretti ha portato una sedia, due mondi prendono i loro contorni separati e subito si allontanano, l'universo prigioniero della vittima diventa presto irraggiungibile per i suoi carnefici, più ancora incomprensibile, dunque inafferrabile: un pianeta sconosciuto, che mentre si mostra da vicino rivela nelle Br un'inedita impotenza interpretativa del Palazzo, disegnato così facilmente da lontano.
L'effetto è spiazzante. Il processo scivola su un piano diverso e imprevisto, la macchinazione mondiale che i brigatisti vedevano come un blocco unico si frantuma in mille spezzoni, ognuno con motivazioni autonome, cause proprie, responsabilità indefinite, in un labirinto democristiano dove c'è una spiegazione per ogni cosa, un'attenuante per qualsiasi colpa, una giustificazione per tutti i peccati, un doppiofondo per qualunque certezza. Moro parla, anche troppo, ma ai brigatisti sembra ogni volta che non dica niente.
Mario Moretti

All'inizio Moretti è deluso, sfiduciato. "Aveva l'impressione che Moro ci portasse un po' in giro - dice oggi Adriana Faranda - , soffriva la diversità di linguaggio, tutto quel politichese. Non riusciva a sintonizzarsi". Chiede chi ha messo le bombe a piazza Fontana, Moro risponde con un'analisi sulla politica in quel periodo. Moretti incalza, vuole sapere i meccanismi della Trilateral, la catena di comando del Sim, nomi e cognomi, responsabilità, Moro risponde partendo da lontano, poi disegnando una larga curva, in salita. È come se dicesse ai suoi carcerieri: non c'è risposta alle vostre domande, c'è solo una storia politica del Paese, nella quale sta a voi trovare spiegazioni, chiarimenti, conferme. Come se aggiungesse: la politica spiega tutto, bisogna saper cercare. Come se volesse far capire che la realtà è più umile, faticosa, contraddittoria della meccanica ideologica, e soprattutto meno automatica e più complessa.
Valerio Morucci

Un giorno, ad un Consiglio Nazionale Dc, Moro aveva sfinito la platea parlando fino alle quattro del pomeriggio, quando si ribellarono gli autisti, suonando tutti insieme i clacson governativi delle auto sulla piazza, come scrisse Giampaolo Pansa. Adesso stava facendo qualcosa di simile con le Brigate Rosse, impadronendosi dell'interrogatorio. A un certo punto Moretti sente il bisogno di collegare un amplificatore al registratore che porta nella cella, in modo che i suoi compagni possano ascoltare la discussione dall'esterno, per condividere la difficoltà. Ma Anna Laura Braghetti confesserà che una volta ha smarrito il filo mentre era seduta sul piccolo divano dello studio fissando l'altoparlante, non è riuscita a seguire, ha trovato tutto molto poco interessante. Insomma non bisognerebbe dirlo davanti alla portata strategica del processo, ma lei stasera si è persa.
Ormai i terroristi capiscono che la caccia al tesoro politico del segreto sui crimini di Stato è perduta. Gallinari e Germano Maccari, che nei primi giorni provavano a sbobinare gli interrogatori, trascrivendo il testo, si arrendono, il lavoro è inutile, e soprattutto è impossibile. Il processo è diventato una discussione politica, dove Moro non dà ai brigatisti nulla di quello che loro cercano, mentre li porta col suo racconto dentro un Palazzo che non conoscono nelle sue mille stanze, cantine e solai, ma dove comunque non sono in grado di entrare. Così si perdono passaggi importanti: come quando Moro accenna alla struttura segreta della Nato in Europa, la "Gladio" che verrà resa nota soltanto anni dopo, o come quando rivela che i terroristi non devono aspettarsi interventi americani per la sua liberazione, perché gli Usa sono da sempre contrari alla sua politica di apertura a sinistra, e per salvarlo "non muoveranno un dito".
Tocca a Moretti rompere l'ipnosi democristiana in cui il prigioniero sta trascinando i suoi carcerieri. Seduto al solito tavolo della cucina, dove i brigatisti mangiano i loro pasti, fa un primo bilancio degli interrogatori, che porterà anche a Firenze alla riunione dell'Esecutivo. Spiega che le Br sono capaci di analisi approfondite sulla natura dello Stato ma non sanno decifrare i meccanismi del potere, i loro incastri, perché solo chi frequenta il Palazzo ne conosce il codice. Poi dice a Braghetti, Maccari e Gallinari che l'interrogatorio ha un valore politico e propagandistico in sé, indipendentemente dalle risposte, e che il processo rovescia ruoli, funzioni e poteri nel momento stesso in cui si celebra.
Il "processo del popolo" domina così il "comunicato numero 2", diffuso nelle quattro città dove operano le colonne brigatiste (Genova, Torino, Milano e Roma) per annunciare che l'interrogatorio "è in corso", e deve "chiarire le politiche antiproletarie della Dc, individuare le strutture della controrivoluzione, svelare il personale politico-economico militare sulle cui gambe cammina il progetto delle multinazionali" e accertare "le dirette responsabilità di Moro, per le quali verrà giudicato con i criteri della giustizia proletaria". Anzi, mancando rivelazioni da trasformare in imputazioni, è la stessa carriera politica di Moro che diventa un atto d'accusa "per la sua presenza a volte palese, a volte strisciante, negli organi di direzione del regime", di cui "dovrà rendere conto al Tribunale del popolo".
Tutt'attorno, le indagini si muovono a vuoto. Dalla Procura filtrano voci di 34 sospetti, i super-ricercati sono sette, tra cui Corrado Alunni, Mario Moretti, Prospero Gallinari e Patrizio Peci. Girano gli identikit, ma a Genova poco prima di un'assemblea sindacale si scoprono al porto duecento volantini che rivendicano l'azione delle Br, tutto il mondo parla del sequestro, il Daily Mail dedica due pagine alla madre di Curcio, Jolanda, fotografata con due barboncini per le strade di Hampstead, dove vive: "Mio figlio - spiega - è un idealista e un rivoluzionario, come tutti i grandi della storia è imprigionato per quello in cui crede".
Anche la politica procede a tentoni: "Siamo davanti a qualcosa che ricorda l'assassinio dei due fratelli Kennedy e la fine della loro strategia per il futuro - dice il deputato Dc Luigi Granelli - . Anche per questo abbiamo bisogno che Moro torni, perché se c'è qualcuno che non può avere successori è proprio lui". L'ex segretario del Psi Giacomo Mancini invita a non dimenticare la Cia, "perché dagli Usa era venuta alla Dc un'ingiunzione aperta a non fare maggioranze con il Pci, la Dc l'ha fatta. E lo scandalo Lockheed è un preciso ammonimento a un partito che non obbedisce più". L'altra superpotenza, l'Urss, respinge pubblicamente i sospetti di un coinvolgimento del Kgb nell'affare Moro: "È un vecchio trucco degli ultrareazionari per deviare l'attenzione dai loro loschi affari", dice la Pravda. "Le raffiche di mitra sono musica prelibata solo per le destre". Qualcuno va a cercare il giudice Mario Sossi rapito dalle Br il 18 aprile del '74 e liberato dopo 35 giorni di processo. "Ormai siamo in guerra - spiega - , bisogna dichiarare lo stato di pericolo pubblico, applicare le norme dei corpi militari in stato di guerra, attuando la ritorsione e la rappresaglia. I brigatisti non portano divise, potrebbero essere fucilati sul posto".
I brigatisti per ora sembrano imprendibili. E continuano a sparare. A Torino il 24 due killer aspettano sotto casa l'ex sindaco democristiano Giovanni Picco all'ora di pranzo e gli scaricano tredici colpi nelle gambe e nella spalla destra. A Roma Anna Laura Braghetti anche stasera sta spogliandosi della sua finta normalità per entrare nell'altra dimensione, quella di terrorista, mentre apre la porta della "base" di via Montalcini con due sacchi di plastica della spesa serale. La fa due volte al giorno, spezzettandola tra un mercato per la carne, la frutta e la verdura al mattino, e un negozio vicino a casa la sera per il latte e le ultime cose che mancano, per non insospettire commercianti e vicini con una borsa troppo carica, visto che nell'appartamento dovrebbero vivere solo in due, lei e l'"ingegner Altobelli". Ma questa volta è passata anche in cartoleria. Ieri, dopo l'interrogatorio, il prigioniero ha chiesto carta e penna, vuole scrivere, e adesso Braghetti posa sul tavolo di cucina, con le provviste, anche un taccuino grande coi fogli a quadretti e due penne a sfera. Dopo aver ritirato il vassoio della cena, Gallinari porta nella cella il block notes, una penna Biro blu, una nera. Stanotte, nel silenzio della casa, mentre tre brigatisti dormono e uno veglia armato, Moro scriverà la prima delle sue 97 lettere dal carcere per il mondo di fuori.
Dove sono oggi, dopo 40 anni, i brigatisti: https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/terrorismo-dove-sono-oggi-brigatisti-sequestro-moro-br-anni-piombo/5727ea3e-52df-11e8-b644-be5bfaf16efb-va.shtml