Di Michele Salvati – Milano, 19 dicembre 2018
Per i nostri ragazzi una vita all’estero non sarebbe certo un dramma grazie alla loro istruzione. Che però serve a essere cittadini del mondo, non a fuggire.
Da alcuni amici della mia età e delle mie condizioni sociali (ottant’anni, elevato livello di istruzione, professione e reddito medio-alti) sento fare talora queste considerazioni: «Nonostante le sue risorse potenziali e il suo grande passato l’Italia è inesorabilmente avviata al declino. Noi siamo vecchi e, se rimarremo in buona salute, non vivremo male i pochi anni che ci restano. Ai nostri figli abbiamo assicurato un livello di istruzione simile al nostro, una professione esercitabile in molti altri Paesi e la padronanza dell’attuale lingua franca, l’inglese. Salvo incidenti, essi li trasmetteranno ai nostri nipoti. Per loro, una vita all’estero non sarebbe un dramma».
Queste considerazioni mi mettono addosso una certa tristezza. Anche gli anarchici erano e volevano che i loro figli fossero cosmopoliti e li addestravano in mestieri esercitabili ovunque nel mondo di allora (idraulico, tipografo, fabbro, falegname...), ma non lo facevano per assicurare loro il successo individuale, bensì per un ideale di società migliore di quella in cui vivevano. Sbagliato, pericoloso e irrealizzabile, ma un ideale. Quale ideale trasmettiamo ai nostri figli e nipoti se la pensiamo così? Non esistono forse possibilità di migliorare, e di molto, le società in cui viviamo? E perché non cercare di attuarle nel Paese dove stanno i nostri affetti e le nostre radici? L’Italia è mal messa, è vero: ma nessun declino è ineluttabile. Quali sono allora i motivi che inducono al pessimismo e all’abbandono di ogni speranza di riforma?
Il motivo principale mi sembra un acuto senso di impotenza, che si sta estendendo anche tra i ceti più elevati della società, quelli che hanno maggiori risorse sociali e culturali. È vero, ci sono riforme e scelte politiche che consentirebbero al nostro Paese di tornare a crescere e insieme di migliorare le condizioni di vita dei suoi ceti più svantaggiati. Ma queste richiedono un’analisi rigorosa e realistica delle cause da cui prende avvio il declino, assai prima degli anni ai quali lo si fa solitamente risalire. Se si devono rispettare inevitabili vincoli esterni dovuti alla globalizzazione liberale in cui siamo immersi e al grado limitato di solidarietà interstatale dovuto all’attuale assetto politico dell’Ue, essi richiedono riforme interne che turberebbero interessi consolidati e limiterebbero comprensibili aspirazioni di maggior benessere immediato: in sostanza, non ci si può indebitare ulteriormente ed è necessario diventare più competitivi e crescere di più. Richiedono dunque la messa in opera delle maggiori competenze di cui il Paese dispone. E soprattutto richiedono tempi lunghi per dare i primi frutti. Se così stanno le cose, il senso di impotenza si trasforma in pessimismo di fronte alla difficoltà di dare una risposta positiva a questa domanda: è mai possibile che possano affermarsi nel nostro Paese un movimento politico e una coalizione di forze sociali che siano in grado di rendere prevalente nell’elettorato, e quindi nel governo, la narrazione rigorosa e realistica di cui dicevo, e di conseguenza rendere accettabile la prospettiva di lungo periodo che è necessaria per affrontare le cause del declino italiano?
È la stessa natura della democrazia — dato il malessere popolare e la sottovalutazione dei limiti che il nostro sistema produttivo e istituzionale incontra nell’immediato per rispondervi — a costituire il maggior problema. Lo vediamo ora con chiarezza se osserviamo le contorsioni delle attuali forze di governo, allo scopo di non perdere la faccia di fronte alla retromarcia che le condizioni del Paese — non l’Europa! — impongono al loro insostenibile programma elettorale. Ma hanno contribuito alla diseducazione degli elettori anche molte delle forze politiche dei governi precedenti, a partire dalla Prima Repubblica, che hanno dato un’immagine falsamente ottimistica dello stato dell’economia e delle istituzioni italiane. E che, soprattutto, portano in diversa misura la responsabilità per aver aggravato il declino del Paese, di conseguenza alimentando la «ribellione delle masse». I 5 Stelle e la Lega hanno solo rincarato la dose di populismo, attribuendo gran parte delle colpe alla «casta» e all’Europa e accentuando il grado di incompetenza e di improvvisazione nell’azione di governo. Come non essere scoraggiati se è la stessa democrazia, la competizione delle élite politiche per ottenere un facile consenso popolare, a produrre questi esiti?
Ma l’antidoto a questi esiti della democrazia non può essere che la democrazia stessae la possibilità che essa offre ad ognuno di combattere per le proprie idee. In democrazia non occorre essere eroi: impegnarsi è privo di rischi e compatibile con scelte individuali e famigliari avvedute. Ed è utile, perché un ragionevole disegno di uscita dal declino esiste, anche se lento nei suoi effetti e al momento sopraffatto dal populismo. Ma il futuro è aperto: mentre ci sforziamo di dare un’ottima educazione a figli e nipoti, cerchiamo allora di non dare l’idea che questo serva per scappare da un Paese consegnato al declino. Serve per essere cittadini del mondo. Serve per essere cittadini europei. Serve per essere cittadini italiani e giustificare un orgoglio nazionale beninteso.
Riflessioni estremamente interessanti anche per chi, come me, si trova a metà del guado, troppo giovane per rassegnarmi o essere fiducioso nel "poter vivere serenamente gli anni che mi restano", troppo anziano per poter progettare una vita altrove.
Quanto riscontro nella (piccola!) parte di miei coetanei che vivono l'attuale condizione del paese come un evidente declino sociale, civile e morale (il declino economico è il meno grave) è una grande, sana ed entusiasta voglia di resistere che non trova però riscontro in alcun elemento aggregatore. La resistenza è diventata individuale e si sostanzia nella lotta quotidiana nel "dare l'esempio", non piegarsi al "tanto lo fanno tutti", a costo di passare nel migliore dei casi per tipi originali, nel peggiore per dei poveracci...
Un approccio di questo genere è però immensamente meno efficace e rapido di una resistenza organizzata e coordinata e qualcuno lo ha capito prima di noi, la cancellazione dell'idea di partito, dell'ideologia stessa, della lotta di classe, è stata pianificata, perseguita ed ottenuta proprio per questo. Qualsiasi risultato che non sia ottenibile in tempi brevi non vale la pena di essere cercato...
Mi unisco sia alle riflessioni dell'articolo che al commento di Raimondo. Mi permetto di aggiungere uno spunto: la cultura popolare influenzata dal benessere. Se guardiamo la storia notiamo che dal dopoguerra ad oggi le menti più illuminate ed il periodo di maggior coesione e progresso del paese, è stato il ventennio successivo alla conclusione del secondo conflitto mondiale. "Casualmente" al successivo boom economico e il primo benessere è seguita un'inversione di tendenza che ha preso maggior forma e concretezza negli anni '80 per poi consolidarsi nel decennio successivo ed esplodere fragorosamente dall'alba del nuovo millennio ad oggi. Ora, che per riprendere un minimo di quella cultura del fare insieme degli anni '50 ci vogliano delle difficoltà similari è plausibile, il problema è capire quando questo accadrà e la cosa a mio avviso dipende solo da quanto ancora durerà l'erosione del patrimonio che le generazioni precedenti hanno lasciato/stanno lasciando a figli e nipoti.